Educatore: Perché credi poco nella rieducazione? Perché tendi ad investire quasi esclusivamente nella sicurezza intesa come repressione?
Società: La sensazione comune aleggiante e radicata tra i miei consociati è che “rieducazione” e “sicurezza” siano due realtà agli antipodi e si debba, di conseguenza, optare per l’una o per l’altra. È palese che sia maggiormente avvertito il bisogno di sicurezza: in questo “aut aut”, una scelta elimina l’altra.
Educatore: La visione che tu esprimi è distorta e non corrisponde alla realtà.
Sicurezza e trattamento possono e devono essere concepite come due diverse, ma complementari, modalità di gestione della realtà carceraria, strettamente collegate tra loro, tanto da diventare inscindibili.
A ben guardare si tratta di due facce di un busto bifronte, che non sono antitetiche, bensì si compensano e si completano nella loro necessaria compresenza.
Già: perché nessuna reale sicurezza può essere garantita senza aver attuato un programma di rieducazione nei confronti dei detenuti; così come nessun intervento rieducativo può essere validamente programmato e messo in atto, se non è accompagnato da elementi di sicurezza.
Società: Mi sfugge qualcosa…
Logica impone che qualunque persona colpevole di un reato, poiché mina le basi di una pacifica convivenza, debba essere rinchiusa in un luogo ristretto.
Non ritieni, forse, che tale soluzione sia necessaria e sufficiente a ripristinare l’ordine violato e garantire la sicurezza?
Educatore: Necessaria probabilmente si; sufficiente certamente no.
Se la tua azione si limita all’allontanamento del deviante, lo stato di isolamento e la conseguente inettitudine dello stesso a scopo contenitivo, non sortiscono altro effetto che quello di spostare nel tempo la sua azione delittuosa, procrastinando, ma al contempo rinsaldando, la formazione della sua carriera criminale.
Ogni qualvolta i tuoi rappresentanti politici scelgono la soluzione coercitivo-punitiva, optano per la via più semplice da attuare sul piano pragmatico e che paga di più anche a livello elettorale; ma sottovalutano un rischio inevitabile: quello di utilizzare il carcere esclusivamente come contenitore di patologie sociali, mettendo dentro tutti coloro che risultano fastidiosi e pericolosi agli occhi della società, in nome di una “pseudo - sicurezza” sterile ed irraggiungibile, perché costantemente minata dal “rischio” di recidiva, che, alle condizioni anzidette, si trasformerà inevitabilmente in “certezza”.
Società: E allora che cosa si può fare per scongiurare il pericolo della recidiva e garantire la sicurezza?
Educatore: Si deve investire nella rieducazione, elemento necessario ed ineliminabile, poichè essa svolge un ruolo di (ri)costruzione e (ri)determinazione dell’essere umano, contro le spinte sociali massificanti e contenitive.
Il criminale deve essere supportato in quel percorso che lo condurrà alla presa di coscienza delle scelte compiute. Grazie all’aiuto dell’educatore in particolare e di tutti gli operatori penitenziari in generale, il reo può diventare artista e artefice della propria esistenza: il trattamento rieducativo deve favorire lo sviluppo del senso di responsabilità nel delinquente, di modo che egli si faccia carico, senza giustificazioni, del male compiuto e della colpa derivatane.
La presa di coscienza da parte del reo della propria responsabilità è “conditio sine qua non” dell’opera di risocializzazione dello stesso.
Società: Ma ad opera di chi avviene questo trattamento rieducativo?
Educatore: Affinché esso sia validamente e proficuamente attuato, è necessaria la compartecipazione di tutti gli operatori sociali: in particolare, funzioni custodiali e attività rieducative si intrecciano continuamente nel percorso risocializzante.
Sicurezza e trattamento possono e devono coesistere, grazie al lavoro e all’atteggiamento di apertura degli operatori appartenenti a ciascuna delle due aree, che svolgono la loro professione con dedizione, coscienza, abnegazione e senso pratico.
Società: E io posso favorire questo processo?
Educatore: Non solo puoi favorirlo, ma devi parteciparvi attivamente. La comunità carceraria e quella esterna sono due facce della stessa medaglia: la società civile deve aprirsi al carcere, affinchè esso diventi un’istituzione sociale. È necessario un dialogo attivo e costante tra realtà carceraria e società esterna, per la cui realizzazione bisogna che quest’ultima sia aperta al cambiamento del reo e disponibile a riconoscerlo anzitutto come persona.
Il dialogo e il bisogno di comunicare del reo è avvertito come “antidoto” alla solitudine che scaturisce dall’isolamento, dall’abbandono e dalla mancanza di riconoscimento: l’educatore è il tramite tra il detenuto e la società esterna.
Società: In conclusione, tu affermi che la responsabilità maggiore nel raggiungimento a lungo termine della sicurezza, è imputabile a me medesima?
Educatore: Proprio così!
Fino a quando continuerai a considerare l’istituto penitenziario come mero contenitore della devianza, anziché come luogo in cui il ristretto – seppure nel riconoscimento e nell’appropriazione della sua responsabilità – possa trovare offerte e stimoli al cambiamento, per ridisegnare la propria vita al di fuori degli schemi dell’antisocialità e del crimine; fino a quando non acquisirai questa “forma mentis”, non potrai garantire agli appartenenti alla tua comunità, alcuna sicurezza duratura.