L'INTEGRAZIONE SCOLASTICA(articolo:Ianes e D'Alonzo-L'integrazione scolastica dal 1997al 2007).
Incipit di questa mia riflessione sulla tematica dell'integrazione scolastica è assumere come punto di partenza che l'azione del curare non si riferisce solo al guarire dalla malattia. In particolare faccio riferimento ad Heidegger che distingue tra: cura inautentica, definita come il non curarsi degli altri quanto delle cose da procurar loro, e cura autentica, che invece apre agli altri la possibilità di trovare sé stessi, offrendo le condizioni, l’occasione di potersi prendere cura di sé. In tale accezione essa si configura come attività volta a promuovere il processo di crescita e a liberarlo da ostacoli che lo limitano, si indirizza a bisogni di adattamento, inserimento, realizzazione e integrazione sociale, è l’elemento caratterizzante la relazione d’aiuto. Cura quindi non significa guarire ma prendere in carico la persona in un agire che sia una progressiva emancipazione dei soggetti coinvolti volta alla realizzazione dell'uomo per ciò che è e per ciò che può diventare.
Mi piace iniziare da qui per parlare dell'integrazione scolastica proprio perché penso che la struttura scolastica nella vita di un bambino con deficit, possa essere luogo di cura autentica, nell’accezione heideggeriana, la scuola può cioè diventare l'elemento rilevante di una vicenda di emancipazione, può diventare l'elemento indispensabile a una triangolazione (termine che ha una letteratura, e che significa apertura di una situazione di faccia a faccia difficilmente sostenibile, mediazione, capacità di strutturare un rapporto che consenta la dialettica aperta), può essere un elemento della vita del bambino e della famiglia che attui una reale “presa in carico”, ossia che assuma su di sé la responsabilità di programmare e gestire un intervento in modo intenzionale e strategico utilizzando strumenti e risorse adeguati per tentare di risolvere il problema che la persona in difficoltà non è in grado autonomamente di gestire. Ciò non significa sostituirsi ad essa, ma coinvolgerla sin dalla definizione del progetto ed accompagnarla nella realizzazione dello stesso.
Bisogna ammettere che per tanti è davvero difficile vivere la crescita di un bambino in situazione di disagio accompagnandolo ad un progressivo riconoscimento reciproco, soprattutto se partiamo dal presupposto che vi sono handicap derivati da deficit e altri assai numerosi che derivano dalla miseria, dalla condizioni di marginalità, dalle violenze urbane e sub urbane. Circoscrivendo tuttavia la riflessione ai bambini e bambine “handicappati” per un deficit, vediamo che la reciprocità può essere difficile per tante ragioni, e quando le condizioni di reciprocità non si stabiliscono e non si sviluppano, quel bambino o quella bambina coinvolta nella situazione non apprende con la stessa tranquilla facilità: le sue conoscenze non si sviluppano come gli adulti si attendevano, in rapporto ad altri bambini e ad altre bambine, e la stessa crescita sembra compromessa. E,' in tale percorso, di fondamentale importanza quanto afferma la Murdaca in relazione alla necessità di una “ricostruzione di una nuova cultura della disabilità” che “chiami i bambini per nome”, che non generalizzi ma riconosca la persona nella sua unicità, una cultura, cioè che non “definisca nessuno per sottrazione” ma che sia centrata sulla valorizzazione del singolo riconosciuto nel suo essere persona, in una dimensione olistica, con il rispetto delle differenze e delle identità, che abbandoni l'ottica dell'inserimento e adottando l'ottica della globalità, rimoduli il termine integrazione dirigendosi verso l'inclusione. In tale percorso compito della scuola è ipotizzare itinerari educativo-didattici in cui attività di apprendimento e di socializzazione si intreccino secondo la logica di un continuum formativo; fondamentale è lavorare sulla socializzazione in modo che il bambino si senta parte della classe e non sia isolato fronte muro con un docente di fronte, l'insegnante di sostegno deve aiutare il bambino in un percorso che vada verso l'inclusione; ma altrettanto importante è la continuità che la realtà scolastica oggi purtroppo non garantisce.
Per lungo tempo l'atteggiamento verso i soggetti con disabilità è stato di esclusione, negli anni 50 essi erano esclusi dalla scuola; si è poi affermato negli anni '60 un approccio medico che portava a focalizzare l'attenzione solo sulla malattia e quindi vedeva il disabile solo ed esclusivamente come malato da curare: per anni la persona con disabilità è stata vista solo come un soggetto da accudire, da assistere, concentrandosi sui suoi limiti ma ignorando le sue potenzialità. Dalla segregazione si è quindi passati alla protezione: anche questa tuttavia non risulta essere una strategia adeguata in quanto tende a coprire le carenze della società con quell'assistenzialismo che si traduce spesso in un atteggiamento di pietismo e di esclusione sociale.
Successivamente si è assistito ad un lento cambiamento di mentalità e di diverso approccio alla tematica che portò all'affermarsi della logica dell'inserimento negli anni '70 e successivamente a parlare di integrazione negli anni '80. Pian piano si affermò l'idea che il soggetto disabile dovesse entrare a far parte del contesto sociale, ossia dovesse essere integrato. Tale cambiamento si evidenzia anche con l'utilizzo di un linguaggio diverso: infatti il termine “disabile” fu sostituito quello di diversabile, cambiamento terminologica che voleva sottolineare che il perno della vita di tali persone non era il deficit, la disabilità, ma la parte positiva valoriale che ciascuno possiede ed esprime nella sua dimensione affettiva, lavorativa, sociale, parte che va aiutata a venir fuori.
Da un punto di vista legislativo primo importante passo fu segnato dalla legge 118/1971 che sanciva il principio secondo il quale per gli allievi in situazione di handicap “l'istruzione dell'obbligo deve avvenire in classi normali della scuola pubblica”: il nostro Paese “accettava una scommessa molto importante per la sua crescita civile, sociale, culturale, la scommessa dell'integrazione, nelle classi e nella scuola, di tutti i cittadini: si capì l'importanza di aprire le porte delle scuole ai disabili, perchè si riconobbe anche a costoro la dignità di persone nonostante il deficit fisico”. (Ianes e D'Alonzo: l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità).
Ma fu la successiva legge 517/77 (quadro normativo riservato alla scuola elementare e media) che segnò un salto di qualità sancendo l'inserimento degli alunni con disabilità nelle classi normali in modo concreto, abolendo le classi differenziali che per decenni erano state luoghi di segregazione, proponendo l'insegnante di sostegno come operatore scolastico e non sanitario, e ponendo le basi per una scuola aperta a tutti.
La Legge 517/77: dà l’avvio a forme di integrazione degli alunni portatori di handicap; assicura l’ integrazione specialistica, il servizio psicopedagogico e forme particolari di sostegno, riconoscendo l’importanza di interventi educativi personalizzati: nascere disabile non avrebbe più voluto dire essere discriminato fin dall'infanzia. Nel giro di alcuni anni le scuole cominciarono ad accogliere anche coloro che per secoli erano stati rifiutati e ghettizzati: si capì che non bastava “inserire” ma era necessario “accogliere”. Si andò affermando il concetto di educazione come cambiamento e man mano si fece largo il concetto di integrazione: in questi decenni è profondamente cambiato il concetto stesso di handicap e quindi anche il modo di percepire le persone disabili; l'handicap è oggi inteso come una condizione di svantaggio conseguente ad una menomazione o ad un deficit, esso è quindi qualcosa di oggettivo, dipendente dalla situazione, dal rapporto tra deficit e contesto e pertanto può essere aumentato, ridotto, o anche annullato. Strettamente connesso a questo cambiamento del concetto di handicap è il concetto di integrazione sociale che va oltre il concetto di inserimento, legandosi invece al concetto di qualità della vita e di benessere.
Questo cambiamento di prospettiva è pienamente espresso dalla Legge Quadro del 104/1992 “per l'assistenza, l'integrazione e i diritti delle persone con handicap”, il cui focus è proprio l’integrazione.
Essa garantisce il diritto all’educazione del soggetto con handicap nelle sezioni della scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie ( art 12 della Costituzione). Tale legge rappresenta un chiaro esempio di avanguardia normativa che distingue l'Italia da tutti gli altri Paesi europei in materia di “integrazione scolastica”.
Si afferma quindi anche dal punto di vista legislativo, “una prospettiva pedagogica inclusiva, la quale sorretta da una considerazione antropologica di valore, è stata capace di scardinare un sistema scolastico rigido, chiuso e monolitico e di accettare la scommessa dell’integrazione quale obiettivo pedagogico primario: il rispetto per la vita richiedeva l’assunzione di questo dato di fatto: il disabile è una persona e come tale necessita di rispetto e di educazione in contesti formativi normali; il valore della persona postulava non solo di essere affermato, ma di essere concretamente promosso da un contesto educativo in grado di offrire tutto ciò che la condizione di disabilità richiedeva e questo non poteva che essere l’ambiente scolastico normale” (Ianes e D'Alonzo- L'integrazione scolastica dal 1997 al 2007).
E’ interessante approfondire la conoscenza del termine “integrazione” che etimologicamente rimanda a più significati: da un lato ha il senso di inserire una persona o un gruppo in un ambiente o in un contesto in modo che ne diventi parte organica; dall'altro significa anche “rendere qualcosa completo”, quindi completarsi divenendo parte integrante di un sistema. Assumendo questo secondo come significato più opportuno, appare evidente che il termine integrazione può riferirsi sia al soggetto da integrare, sia al contesto che integra a sé. Ciò lascia intendere come l'integrazione non costituisca un bisogno esclusivamente per chi è in situazione di disagio, ma anche per la società stessa. E' dunque possibile parlare di integrazione solo se si verifica un cambiamento in chi è da integrare e viene integrato e in chi si adopera per l'integrazione dell'altro, ossia se si produce una modificazione sia nella persona con disabilità sia nel contesto che si prepara ad accoglierla: l'integrazione, quindi, è realmente tale se è inter-attiva, laddove interattività vuol dire porre sullo stesso piano le due parti per un miglioramento reciproco. Non è concepibile pertanto lavorare esclusivamente per il cambiamento di chi è svantaggiato affinché possa integrarsi nel contesto sociale, ma occorre modificare anche quelle condizioni sociali che impediscono una reale integrazione.
A tal proposito, partendo dal presupposto che per deficit si intende un elemento soggettivo ed irreversibile, mentre l'handicap rappresenta invece la condizione di svantaggio conseguente del deficit ed è quindi un elemento oggettivo in relazione ad una situazione sociale e culturale, si può affermare che l'handicap è in primo luogo un fenomeno sociale per cui, come sostiene Canevaro, è possibile“ridurre l'handicap, ma non il deficit” ed è su questo aspetto che bisogna lavorare perchè anche nelle situazioni di deficit molto gravi sarà possibile e necessario un intervento pedagogico che abbia come obiettivo l'emancipazione del soggetto, mirando a ridurre l'handicap e a favorirne un percorso di inclusione nel contesto socio-culturale che lo circonda, facilitandone le relazioni, superando l'ottica dell'inserimento propria degli decenni scorsi e la logica dell'accudimento; ma ciò è possibile solo se si produce una modificazione sia nel soggetto con deficit sia nel contesto che lo accoglie: l'integrazione è realmente tale se è inter-attiva, se porta alla modificazione di quelle condizioni sociali che impediscono la reale integrazione delle persone con deficit, essa è pertanto un processo continuo, una continua ricerca di strategie, soluzioni e nuove possibilità. Canevaro insiste sulla necessità di un'integrazione fra aspetti tecnici ed aspetti relazionali evidenziando criticamente i più comuni atteggiamenti manifestati nei confronti delle persone con disabilità, sia dalla gente comune sia degli specialisti in materia; tra questi egli punta il dito in particolare su quello della categorizzazione, ossia ridurre l'individuo con deficit al solo deficit, identificandolo con esso, facendogli assumere un'identità di categoria che non ci permette più di riconoscerne l'identità individuale, unica ed originale: la categorizzazione chiude la conoscenza e non lascia spazio per la scoperta del soggetto e dunque per un approccio “normale” fondato sulla globalità del suo essere persona.
Lascioli nel testo “Handicap e pregiudizio” afferma che “l'handicap si esprime con atteggiamenti individuali e collettivi di emarginazione ed esclusione nei confronti dei diversi. Secondo lui pregiudizi e stereotipi farebbero dell'handicap qualcosa che serve per racchiudere i diversi in una sorta di cerchio chiuso, in uno scarto di umanità”, mentre la Murdaca evidenzia che “è il contesto sociale a determinare la condizione di handicap, sono gli ostacoli e le barriere fisiche, come quelle mentali e culturali a favorire il processo di esclusione oppure quello di emarginazione”. Dunque la società non accetta il diverso, il disabile, e ciò non solo con le barriere architettoniche, ma, come abbiamo visto attraverso le parole di Adele, anche e soprattutto con le barriere fisiche e culturali. In effetti a ben guardare, potremmo dire che le prime esistono in conseguenza delle seconde: sono cioè i limiti del modo di pensare di una società che portano a non accorgersi dei disagi di chi è più debole, o a non farsene carico come società civile perchè “il problema è di chi ce l'ha”; sono barriere come l'indifferenza, l'etichettamento, l'emarginazione che impediscono di lottare per eliminare quegli ostacoli affinchè tutti possano dirsi cittadini a pieno titolo; e questo l'abbiamo vissuto in maniera piuttosto chiara e forte proprio durante la simulazione sull'emarginazione: tali barriere culturali si manifestano attraverso atteggiamenti di chi guarda e giudica dal centro, dal suo punto di vista chiuso e privilegiato, attraverso l'indifferenza, attraverso una noncuranza per cui tutti i diversi diventano invisibili (problema della visibilità/invisibilità che Adele ha sottolineato con forza) e si concretizzano in azioni quali quelle di chi blocca lo scivolo o di chi non vuole l'ascensore idoneo nel proprio condominio, azioni generate da occhi miopi. L'handicap è quindi innanzitutto un fenomeno sociale e in relazione a ciò l'integrazione è un processo continuo, non un punto di arrivo, ma una continua ricerca di strategie idonee a far si che il disabile possa dirsi cittadino a pieno titolo.
La Legge quadro sull’handicap n° 104/92 pone come obiettivo dell’integrazione lo sviluppo delle potenzialità della persona disabile nell’apprendimento, nelle relazioni e nella socializzazione. Educare quindi significa portare un "aiuto" allo sviluppo totale ed integrato della personalità di ognuno. Per fare ciò bisogna agire su tutte le dimensioni, le aree, le funzioni e sulla loro interazione, in modo che ciascuno raggiunga il massimo livello consentito dalle proprie condizioni genetiche. Se tale lavoro progressionale si caratterizza come estremamente complesso anche per il soggetto normodotato, a maggior ragione lo sarà nei confronti di coloro i quali, a causa di una limitazione, si allontanano dalla norma. Dunque è necessario dare al disabile la possibilità di crescere, e non si può crescere se non si ha la capacità di comunicare, cioè di stabilire un rapporto con gli altri. Occorre dare queste capacità utilizzando i mezzi più idonei in relazione con il tipo di handicap di cui il singolo è portatore. Per ottenere un tale risultato, è necessario mettere il disabile in contatto con il maggior numero possibile di persone e di gruppi sociali, affinché si arrivi al fine preposto. La vita di un individuo è " una costruzione semantica", l'intera realtà socio-educativa, e principalmente la scuola, deve aiutarlo a superare i condizionamenti che lo circondano e a vincere, per quanto possibile, i limiti di cui è portatore. L’integrazione scolastica delle persone disabili pone problemi specifici e, quindi, l’esigenza di trasformare i percorsi e le strategie educative. La normativa sottolinea l’importanza del coinvolgimento della famiglia nel processo educativo del bambino e della collaborazione tra scuola, Aziende Sanitarie ed Enti Locali. Queste istituzioni concorrono insieme a fornire le risorse umane, tecnologiche ed economiche, necessarie per garantire la maggiore integrazione possibile. Nella scuola il bambino entra in contatto con gli insegnanti e la rete educativa, in cui esistono regole e rapporti non ancora sperimentati, socializza, trova la possibilità di sviluppare e approfondire relazioni traversali con gli adulti e con i coetanei, in un nuovo contesto. La scuola diventa così un luogo di relazione tra le varie agenzie educative e tra le diverse persone che hanno preso in carico il soggetto disabile. La socializzazione del soggetto disabile, sia all’interno che all’esterno dell’ambiente scolastico, offre ulteriori opportunità formative capaci di motivare, orientare e sostenere l’apprendimento e le relazioni. C’è quindi una continuità tra funzione genitoriale e scolastica, una alleanza e una complementarietà che offre maggiori possibilità di sviluppo alle potenzialità di ciascun soggetto. Ogni bambino è unico ed irrepetibile, con un proprio stile cognitivo, strategia di apprendimento, forma espressiva e comunicativa. Quando si tratta di un bambino disabile l’unicità, quindi la diversità, è vissuta quasi esclusivamente nella sua accezione negativa. La sua diversità è, infatti, molto più difficilmente contenibile in un modello standard di essere e, soprattutto, di apparire. In generale le istituzioni reagiscono con difficoltà verso ciò che devia “dall’atteso comune”, perché richiede loro flessibilità, adattamento ed innovazione, tutte qualità che sono difficili da attuare nelle agenzie organizzate e da tempo strutturate.
La meta essenziale dell'azione educativa è quella di favorire lo sviluppo della personalità umana: mezzi e contenuti scolastici devono pertanto considerarsi sempre ed in ogni caso strumenti rispetto al fine che è la crescita dell'alunno, di ogni alunno. Ciò vale per il bambino normodotato, ma vale, a maggior ragione, per il bambino disabile o svantaggiato che, più di ogni altro, ha diritto ad una scuola in cui siano assicurate le condizioni, culturali e psicologiche, per una crescita globale ed armoniosa. L'obiettivo dell'apprendimento non può mai essere disatteso e tanto meno sostituito da una semplice socializzazione "in presenza". Occorre, infatti, sottolineare l'importanza di mirare al raggiungimento di una reale integrazione e non ad un mero inserimento. La vera integrazione è un processo aperto di adattamento reciproco correlato con il riconoscimento e l'assunzione delle identità. La legge sottolinea l'importanza di una scuola che non solo istruisca ma offra ad ogni alunno l'occasione di realizzare le proprie potenzialità: solo così l'alunno diverrà un membro partecipe ed attivo della comunità sociale. Obiettivo di fondo della scuola è quello di aiutare il bambino in situazione di handicap a strutturare un'immagine di sé integrata e a riconoscere gradualmente le difficoltà legate alla disabilità per potervi convivere serenamente. A tal fine è indispensabile la predisposizione di una scuola aperta che all'interno promuova un clima di interazione e all'esterno intrecci collaborazioni con il territorio. La scuola “aperta” afferma Frabboni è la scuola dello stile sperimentale, la scuola dei laboratori, la scuola delle aule decentrate.
Ianes, mette invece l'accento innanzitutto sulla conoscenza dell'alunno: è impensabile una buona didattica speciale per integrazione se non conosciamo bene il funzionamento e le caratteristiche di apprendimento e di relazioni emotive dell'alunno. Un primo ambito è dunque quello di approfondire anche attraverso la diagnosi funzionale partecipata della scuola la conoscenza del funzionamento dell'alunno. Proprio in relazione alla conoscenza è fondamentale il riferimento all’ICF, strumento dell'OMS che consente di approfondire sempre meglio le conoscenze dell'alunno perchè non classifica solo condizioni di salute, malattie, disordini o traumi, che sono d'interesse dell'ICD, bensì le conseguenze associate alle condizioni di salute, ponendo l'accento sulla qualità di vita delle persone e sul concetto di benessere. Ianes ci dice che è questa la prima scommessa metodologica fondamentale: fare una buona didattica speciale per l'integrazione approfondendo una buona conoscenza dell'alunno, competenza fondamentale è proprio approfondire nel dettaglio il come un bambino con BES funziona; alcuni bambini hanno bisogni educativi particolari (ad esempio nel caso dell’autismo) altri meno particolari ma non per questo meno complessi (ad esempio nel caso del DDAI); proprio queste sono, secondo Ianes, le motivazioni che rendono indispensabile l’investire risorse e competenze sulla conoscenza, che non può prescindere dalla capacità da parte del docente di instaurare una relazione educativa significativa, che consenta all'insegnante di prendere in considerazione la diversa situazione e mettere in atto programmi mirati su un piano di pari opportunità con i normodotati che consentano di valorizzare doti e potenzialità.
Altro elemento importante è quello che Ianes chiama la "speciale normalità": ossia rendere la normalità, intesa come il quadro delle relazioni, della didattica, dello stare a scuola col gruppo di riferimento, come l’insieme che accoglie, che dà identità che dà senso di appartenenza, speciale, cioè ricca di elementi tecnici in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni. Ed è proprio in quest’ottica, che egli parla dell’importanza delle competenze ma anche delle risorse, quali caratteristica di una scuola che voglia davvero essere inclusiva.
In questo cammino, Ianes sostiene che l'uso dellle tecnologie innovative sia in grado di facilitare processi positivi di tipo inclusivo attraverso ausilii che entrano nell'ambito delle tecnologie integrative, ove la tecnologia è appunto utilizzata come sostegno. In questo senso l'ausilio è l'apparecchiatura che consente di attivare o potenziare un percorso di autonomia possibile. L'uso di tali tecnologie con i disabili, come ad esempio il computer, a scuola può contribuire a favorire una buona comunicazione alunno-docente, accrescere l'autostima, rinforzare il senso di sicurezza, stimolare una maggiore motivazione allo studio.
Alcune tecnologie sono appositamente studiate per bisogni specifici: un approccio specifico utilizzato con i bambini autistici è, ad esempio, quello della Comunicazione Aumentativa e Alternativa (C.A.A.), espressione questa, usata per descrivere tutte le modalità di comunicazione che possono facilitare e migliorare la comunicazione di tutte le persone che hanno difficoltà ad utilizzare i più comuni canali comunicativi, soprattutto il linguaggio orale e la scrittura; essa si definisce aumentativa perché non sostituisce ma incrementa le possibilità comunicative naturali della persona; alternativa perché utilizza modalità di comunicazione alternative e diverse da quelle tradizionali. Essa permette sostanzialmente al bambino di comunicare con le immagini attraverso particolari ausilii, ne è un esempio il Minimò, computerinio portatile dotato di touch screen, esso è un supporto visivo associato alla parola in grado di aiutare il bambino autistico nella comunicazione.
Altre tecnologie invece sono utilizzabili con l'intero gruppo classe. Ianes in particolare fa riferimento all’uso della Lavagna Interattiva Multimediale (LIM), di cui sottolinea l'importanza dell'approccio didattico generale, sul piano cioè dell’innovazione profonda del modo di gestire in aula, con tutti gli alunni, i processi di insegnamento-apprendimento e di knowledge management. E' importante organizzare la didattica in modo inclusivo, ovviamente, sfruttando per questo anche le possibilità che il nuovo mezzo senza dubbio possiede. Tra l’altro, la LIM, rispetto ad altri strumenti o ausili, ha un carattere universale, si rivolge cioè già a tutti gli alunni, non soltanto a quelli con qualche tipo di difficoltà. È già intrinsecamente inclusiva. La LIM senza una metodologia didattica inclusiva di base non migliorerà però di per sé il grado di inclusività di una classe. (Ianes, 2005; Ianes e Macchia, 2008)
Ma entriamo un po’ di più nel concetto di inclusione, rispetto a quello, ben più noto, di integrazione. Nell’integrazione scolastica tradizionale, il focus centrale del lavoro di individualizzazione è l’alunno con disabilità, a cui vengono rivolte prassi istituzionali e tecniche di certificazione, diagnosi funzionale, programmazione educativa su misura , seguite da varie strategie di insegnamento e facilitazione alla partecipazione, che coinvolgono attivamente i vari contesti dell’alunno (compagni, insegnanti e operatori, famiglia, ecc.) (Ianes e Canevaro, 2008). In molti casi, il lavoro di individualizzazione operato in favore dell’alunno con disabilità, in particolare se è frutto diretto del coinvolgimento dei compagni di classe (come dovrebbe essere), produce una serie di effetti benefici sui compagni stessi, sul clima del gruppo, sugli apprendimenti di tutti. Nell’integrazione, il punto di partenza comunque è l’alunno con disabilità, anche se, soprattutto nei casi di buona integrazione, il percorso e i risultati si allargano a coinvolgere direttamente tutto l’ecosistema dell’alunno con disabilità.
Nel nostro Paese, la discussione sull’inclusione ha preso strade diverse rispetto al dibattito internazionale (Canevaro, 2007). Nella letteratura anglosassone (e nei casi in cui la corrispondente pratica si è tentata), il concetto di inclusione si applica a tutti gli alunni, e viene presentato come la garanzia, diffusa e stabile a livello di cultura scolastica, di politiche e di pratiche educative e formative, per tutti gli alunni, qualunque sia la loro condizione personale e sociale, di poter partecipare in pieno alla vita scolastica e di raggiungere il massimo possibile in termini di apprendimento. Dunque non è un concetto che origina da interventi rivolti a particolari gruppi di alunni, ad esempio con disabilità o differenti background linguistici o culturali (Dovigo, 2007; Dovigo in Booth e Ainscow, 2008). Considerando però la peculiare storia e situazione recente del nostro Paese, da alcuni anni si ritiene invece di usare il concetto di inclusione in un modo parzialmente diverso (Ianes, 2005; Ianes e Macchia, 2008). Questo uso può essere considerato sostanzialmente tattico, nel senso di strumentale e, in prospettiva, transitorio; oggi si deve parlare di inclusione, in Italia, come “del riconoscere e rispondere efficacemente ai diritti di individualizzazione di tutti gli alunni che hanno un qualche Bisogno Educativo Speciale, vale a dire una qualche difficoltà di Human Functioning sulla base del concetto di salute e funzionamento umano di ICF (OMS, 2007)”. In questo modo si allargano notevolmente il concetto e le prassi attuali di integrazione scolastica, riconoscendo legittimamente una gamma ben più ampia di bisogni e attivando risorse e interventi individualizzati per tutti quegli alunni che ne hanno bisogno. Questo allargamento, che risponde a ovvie e palesi esigenze di giustizia ed equità del nostro sistema formativo, sarebbe già un grosso passo avanti rispetto alla situazione attuale, uno stadio intermedio o, se si vuole, una leva strategica per raggiungere la piena inclusione. Infatti è ipotizzazbile che una Scuola che sappia rispondere adeguatamente a tutte le difficoltà degli alunni (anche le più piccole e transitorie) e che sappia addirittura prevenirle, ove possibile, diventi poi facilmente una Scuola della full inclusion, dove non esistano barriere all’apprendimento e alla partecipazione di alcun alunno.
Questo è senz’altro il traguardo a cui tendere (Ianes e Macchia, 2008; Booth e Ainscow, 2008). Il percorso proposto da Ianes è: integrazione, inclusione e full inclusion. La LIM, in particolare, si inserisce in modo proficuo nella fase dell’inclusione se verrà usata bene, la faciliterà efficacemente se riuscirà a essere un approccio didattico generale e non solo un arredo tecnologico e spettacolare e se sarà presente una situazione di classe inclusiva: questo vuol dire relazioni tra pari sostanzialmente prosociali e di aiuto reciproco, culture valorizzanti le differenze e pratiche di individualizzazione didattica sulla base dei bisogni degli alunni e di una concezione attiva della costruzione delle competenze da parte di questi ultimi (Andrich e Miato, 2003). In un contesto simile, è chiaro che la LIM potrà esaltare, finalizzare e ottimizzare una serie di processi inclusivi comunque presenti, anche se a un livello non del tutto soddisfacente. Infine un'altra condizione importante è la massa critica di uso della LIM che viene raggiunta nel tempo didattico reale: se la LIM è usata in modo sporadico, da pochi insegnanti, non riuscirà a far fare un salto significativo all’ecologia formativa complessiva.
In quest'ottica risulta evidente che un tassello fondamentale per la realizzazione di questo percorso è costituito dagli insegnanti e dagli educatori, dalla loro formazione e competenza, dalla loro capacità di dare risposte adeguate alle differenze e di instaurare una relazione che sia in grado di favorire la crescita della persona in difficoltà, in modo tale che questa sia in grado di rispondere in maniera più soddisfacente agli stimoli del proprio ambiente ed alle esigenze interne ed esterne, attivando essa stessa le proprie risorse, tirando fuori la propria capacità di essere resiliente. Si tratta quindi di realizzare una relazione ove il bambino non sia considerato un soggetto passivo in attesa di risposte standardizzate, ma che comporti un effetto di “trascinamento” tale da determinare il coinvolgimento del soggetto in difficoltà per la costruzione del progetto a lui diretto e di realizzare un percorso che porti alla sua emancipazione, principale obiettivo di ogni intervento pedagogico.
Tuttavia a questa prospettiva pedagogica inclusiva italiana cui fa seguito un modello di integrazione scolastica all'avanguardia, non corrisponde una concretizzazione reale: “I cambiamenti repentini che in questi anni hanno investito il nostro sistema educativo e scolastico, le novità che ogni governo della Repubblica intraprende per migliorare il welfare del Paese, non hanno portato alla costruzione di un vero percorso strutturato capace di proporre a tutti i disabili un progetto di vita idoneo. La precarietà della situazione è evidente: una persona disabile deve vivere in certi contesti per poter sviluppare al massimo le proprie potenzialità; alcune zone dell’Italia hanno una capacità di cura migliore rispetto ad altre, ospedali e specialisti della riabilitazione più qualificati, un sistema scolastico più efficace con un’esperienza di integrazione migliore. Ma anche nel medesimo contesto sociale e civile, purtroppo, il disabile non ha la sicurezza di trovare sempre la competenza necessaria; se inserito in un programma formativo e riabilitativo idoneo, deve augurarsi che lo specialista che lo ha preso in carico sia assunto a tempo indeterminato e, quindi, possa impostare un’azione riabilitativa continuativa nel tempo; e se inserito in un contesto scolastico, deve sperare che gli insegnanti del proprio team docente siano di ruolo per poter ottenere la stabilità e la continuità educativa che la sua condizione richiede.” (Ianes e D'Alonzo- L'integrazione scolastica dal 1997 al 2007).
Questi alcuni degli ostacoli che impediscono di rendere concreta e reale la costruzione di una società in cui tutti i suoi cittadini siano davvero cittadini a pieno titolo!
Il sapere pedagogico, in tale realtà, deve continuare a percorrere una strada che abbia sempre uno sguardo rivolto ad un futuro, allo stesso tempo possibile ed utopico, verso una dimensione pedagogica che sia dotata , come afferma Tramma, di un intento conoscitivo e trasformativo mai disgiunti, che si alimenti di una prospettiva utopica (e non utopistica) che spinga a pensare oltre quello che già c'è, usando tale termine nell'accezione di Bertin che definisce l'utopia come “il punto estremo del non ancora, dell'inattuale e del possibile”, dunque una direzione da seguire ma soprattutto da costruire a tutti i livelli!
Oltre i testi e gli articoli già segnalati nella riflessione, sono stati utilizzati i seguenti testi in maniera trasversale:
•Nozioni introduttive di pedagogia della disabilità-Briganti. 2010
•Diversabilità.Storia e dialoghi nell'anno europeo delle persone disabili-Canevaro,Ianes. 2003
•Manuale di pedagogia speciale -Trisciuzzi. 2002
•Pedagogia speciale dell'integrazione.Handicap:conoscere e accompagnare-Canevaro,Balzaretti, Rigon.1996