Questo è uno dei due film che scelsi per il forum 13-lezione virtuale: in quell'occasione il mio commento fu particolarmente lungo e più di carattere personale, per cui in questo nuovo cercherò di non ripetermi ma di continuarlo seguendo le indicazioni della docente.
E' la terza volta che vedo questo film ed ogni volta c'è sempre qualcosa di nuovo e diverso che mi colpisce a cui non avevo prestato attenzione.
Tra le scene che mi hanno più colpita c'è innanzitutto quella iniziale del risveglio, la costruzione scenografica dà la sensazione allo spettatore di essere proprio lui il protagonista, di essere all'interno del suo corpo, del suo scafandro, di sentirsi come lui si è sentito in quei primi momenti...la luce che va e viene, le immagini sbiadite, le voci ovattate, le proprie parole che nesuno ode, il lento ed inesorabile rendersi conto di ciò che è accaduto, lo sgomento per una drammatica condizione di disabilità acquisita e dunque lo shock per lui ed i suoi cari per quella nuova realtà, il dolore, la sofferenza per l'aver perso qualcosa che si aveva: il protagonista è un normodotato che da un giorno all'altro si trova paralizzato dalla testa ai piedi, in tutto e per tutto dipendente dagli altri. Questo elemento è sempre per me fonte non solo di semplice riflessione, ma qualcosa di più...è un pensiero che mi costringe a fermarmi perchè non posso non pensare a quanto per noi sia tutto "dovuto" ciò che abbiamo, così scontato da non darvi valore nel momento presente. Le prime scene fanno davvero mancare il respiro...ci si sente imprigionati proprio come il protagonista.
Altra scena che mi ha colpita è quella in cui comincia ad imparare il nuovo alfabeto: essa innanzitutto mette in luce come sia possibile portare avanti un intervento riabilitativo anche in una condizione così grave di paralisi totale; l'intervento consiste nell'imparare un nuovo alfabeto, ove le lettere sono ordinate secondo la frequenza del loro uso: l'ortofonista legge lentamente le lettere in sequenza e quando arriva la lettere opportuna il paziente sbatte la palpebra; è grazie alla nuova modalità di comunicare insegnatagli pazientemente che può di fatto parlare ed avere contatti e scambi con l'estero, è un intervento che attiva una risorsa fondamentale e si rivelerà preziosissimo perchè permette al protagonista di dare un senso al suo ricordare ed immaginare scrivendo un libro, ma soprattutto di comunicare con le persone care, di vivere le relazioni con gli altri, relazioni nelle quali comunque un elemento costitutivo sarà quello del silenzio: in molte scene infatti si nota come le relazioni con le persone care si rimodulano e in questo rimodularsi il silenzio è presenza, per Jean Do in particolare diviene “ascolto pensante”. Anche se nel film il silenzio del protagonista non è voluto, esso ha comunque un ruolo ed un valore e mi ha fatto molto pensare sul rapporto tra silenzio e comunicazione, sul valore e l'importanza che il silenzio può avere nella comunicazione e di come questo vada analizzato secondo diverse prospettive, come ci suggerisce Fiorentino.
Per quanto riguarda invece l'intervento riabilitativo, nel film è ben evidenziato come questo non sia semplice, ma al contrario faticoso, lento, intervallato da momenti di stanchezza e di scoraggiamento, esso richiede pazienza da entrambe le parti. Particolarmente forte e significativo è il momento in cui Jean Do dice all'ortofonista, che gli sta insegnando il nuovo alfabeto, che vuole morire: lei gli risponde in maniera decisamente contrariata dicendogli di non permettersi di parlare in quel modo perchè c'erano persone che gli volevano bene e per le quali lui contava moltissimo, poi va via dalla stanza arrabbiata, per tornare però qualche attimo dopo e scusarsi per l'aver esagerato...un gesto che ho trovato estremamente delicato...è molto bella questa scena perchè descrive molto bene il personaggio dell'ortofonista (uno di quelli che mi sono maggiormente piaciuti) mettendone in luce la profonda sensibilità, ma anche la grandissima motivazione e professionalità: lei non gli insegna meramente una tecnica di comunicazione, ma prima di tutto cerca di instaurare una relazione significativa con Jean Do, ed è nello spazio di questa relazione che, grazie alla capacità di entrare in sintonia con lui, sostiene, motiva e aiuta il suo paziente non solo ad apprendere ma a resistere. Lei “fa il tifo” per Jean Do, non ha mai nei suoi confronti atteggiamenti svalutativi o riduttivi, non evidenzia le mancanze o i limiti, ma valorizza le potenzialità e questo lo aiuterà ad accettare la sua nuova condizione e a reagire. Qualcosa cambia a seguito di quell'episodio, quando torna la volta successiva Jean Do le dice: ”bentornata”: è l'inizio di un nuovo rapporto, l'ortofonista è stata un elemento di perturbazione, ossia è riuscita ad attivare un cambiamento.
Quanto detto sull'ortofonista mi rimanda al concetto di cura approfondito nelle prime lezioni, inteso cioè secondo quanto ci dice Gaspari, quale “atto di umana comprensione capace di aiutare la persona con deficit a ridare senso e significato alla sua personale esperienza, a ricordarsi di sé, dell'unicità della sua storia, per accettarsi e convivere con la propria specialità”. Quindi diventa cura di sé, ossia inscrizione attiva di sé nella ridefinizione del proprio progetto personale (Briganti- pedagogia della disabilità-pag.31). É proprio ciò che accade nel film.
Molto bella è anche la scena in cui i due tecnici montano il telefono nella stanza parlando solo con l'ortofonista che li apostrofa secca: ”non faccia come se lui non fosse qui, rivolga la domanda a lui”. Vedere questa scena oggi mi ha fatto pensare ad Adele che ci raccontava di come spesso si sente invisibile per gli altri, proprio perchè tendenzialmente i normodotati non si rivolgono alla persona con disabilità, quasi non la vedessero...come nel film da una parte la cura e l'attenzione della donna, dall'altra la superficialità ancor prima che insensibilità dei due tecnici: la differenza forse anche nel fatto che la prima ha instaurato una relazione con Jean Do, lo conosce, come Rosaria con Adele, dunque lo tratta semplicemente come una persona, guardandolo negli occhi e chiamandolo per nome, mentre i secondi sono estranei, che nella loro superficialità neanche percepiscono il protagonista come una persona; questo discorso della conoscenza dell'altro , abbiamo visto, anche in altri laboratori, essere alla base di tutti i processi di emarginazione. E propri in realzione a ciò mi viene in mente quanto sottolineato dalla Murdaca circa la necessità di una nuova cultura della disabitità che investa l'intera società a tutti i livelli, e che favorisca un nuovo modo di percepire il soggetto disabile quale persona a pieno titolo, una nuova cultura che diventi finalmente una mentalità concreta, un modo di porsi diverso da parte di tutti nei confronti della disabilità e si espiciti in comportamenti intrisi di sensibilità, umanità, giustizia, solidarietà vera e non pietismo.
Importante il ruolo svolto dalle persone care al protagonista e questo richiama sempre, tutti, alla responsabilità che abbiamo qui ed ora, qualsiasi sia la nostra parte nella storia che ci è data di vivere. Jona[/b[b]]s afferma: "la responsabilità è la cura di un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando apprensione nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell'essere".....anche io, silvia, oggi nella condizione di normodotata, posso accanto ad una persona con disabilità, avere un ruolo decisivo, di cambiamento, di sostegno, di aiuto a tirar fuori il meglio....anche io posso avere un ruolo nell'accompagnare e aiutare a resistere, ad insistere, a valorizzare.....ad essere resiliente.
Tornando, invece, ai personaggi, molto bella è anche la figura dell'uomo preso in ostaggio che racconta come aveva vissuto l'esperienza del rapimento e paragona la sua situazione passata di prigionia in mano ai rapitori con quella attuale di Jean Do di prigionia nel suo corpo; è un bel personaggio che gratuitamente si sente in dovere di far visita ad un uomo estraneo per aiutarlo, raccontandogli che si era salvato perchè si era attaccato a ciò che faceva di lui un uomo (i vini che conosceva benissimo e ripetuti continuamente a memoria) ed esortandolo e incoraggiandolo a fare lo stesso: “devi attaccarti all'uomo che è in te e sopravvivere!” . Il suo racconto è un dono per Jean Do, ed grazie a questa presenza, unitamente alla paziente presenza dell'ortofonista, della splendida “madre dei suoi figli”, mollata per un'altra e dei suoi cari, che Jean Do comincia ad uscire dall'autocommiserazione. Tante altre le scene meravigliose come quella in cui Celine, la madre dei suoi figli, fa da intermediaria nella telefonata con l'amante (che per altro non era mai andata a trovarlo): Ines e Celine sono a mio avviso l'emblema di due modi di reagire alla tragedia capitata ad una persona cara: l'una seppur con sofferenza, fatica e dolore è amorevolmente presente e cerca di adattarsi e vivere insieme a Jean Do il cambiamento sopraggiunto, l'altra che pur lo ama non riesce ad accettare ciò che è successo e “non ce la fa a vederlo in quello stato”, di fatto sparisce dalla sua vita. Questi due modi di reagire così diametralmente opposti mi fanno riflettere su quante possibili e diverse reazioni possano avere gli esseri umani dinanzi ad un evento traumatico...non tutti riescono ad accettare e a provare a convivere con quanto accaduto cercando un nuovo equilibrio.
Altre splendide figure sono Maria che lo aiuta a scrivere il libro, impostando anch'ella un tipo di relazione molto simile a quella dell'ortofonista; e infine il padre, tenerissimo e commuovente.
Col passare dei giorni lentamente Jean Do esce dall'autocommiserazione e usa le sue due grandissime risorse, oltre la palpebra: la memoria e l'immaginazione; e su queste farà leva per riscoprire la vita. Immediato il richiamo alla resilienza,concetto anche questo più volte ripreso durante il nostro percorso, che “connessa al tema della disabilità riporta il discorso al significato di affrontare e superare situazioni dolorose e di disagio esistenziale, una risorsa preziosa per la costruzione di un percorso di vita stabile e positivo”(Briganti- pedagogia della disabilità-pag. 53). Egli, con l'aiuto di chi lo circonda, riesce ad identificare nei confronti della disabilità fattori protettivi, la palpebra, la memoria e l'immaginazione, che lo aiutano a “modificare in positivo la percezione del suo limite e la riorganizzazione attiva le sue due risorse”: ed è così che intraprende un percorso che lo porta a mutare il suo atteggiamento “da vittima a soggetto attivo”, (emblematico di questo cambiamento è l'elaborazione del progetto del libro); in questo cammino ruolo fondamentale lo riveste, oltre il contesto, quella che nel nostro testo è definita “capacità di adattamento passivo”, ossia “la possibilità di riuscire ad accettare le situazioni che non possiamo cambiare senza continuare a valutarle negativamente bensì imparando da esse o, ancora più semplicemente , dedicandoci ad altro.” La capacità di accettare il dato di realtà che ci è posto dinanzi è, a mio avviso, punto di partenza e di forza, di qualsiasi percorso di vita: senza questo tipo di accettazione, che non è un mero rassegnarsi, ma un non opporsi emotivamente, mentalmente e spiritualmente a ciò che non può essere diversamente, difficilmente il soggetto riuscirà ad attivare tutte le sue risorse e a canalizzare le sue energie per costruire un progetto di vita positivo, un progetto che, qualunque sia la situazione presente, punti in alto.
Chiudo sottolineando che il messaggio del film, a mio avviso, è ben racchiuso in una bellissima frase di Jean Do: “Ero cieco e sordo o mi serviva necessariamente la luce di un'infermità per vedere la mia vera natura”. Le mie riflessioni su questa frase non le riscrivo, in quanto già espresse nel commento dei film del forum lezione virtuale.
Ultima modifica di silvia.ferrante il Mar Mag 10, 2011 5:43 pm - modificato 1 volta.